Seguace di Abraham van Diepenbeeck (1596–1675), XVII secolo
Cristo alla Colonna
Olio su rame, cm 19,5 14,5
Cornice cm 35 x 31
Il piccolo dipinto raffigurante Cristo alla colonna costituisce un intenso esempio di devozione privata di ambito fiammingo del XVII secolo. L’opera si ispira a una composizione di Abraham van Diepenbeeck (1596–1675), artista attivo ad Anversa e allievo di Peter Paul Rubens, del quale riprende la drammatica tensione compositiva e l’eleganza formale delle figure.
La scena mostra Cristo legato alla colonna della flagellazione, rappresentato in posizione leggermente obliqua, con il corpo flesso e lo sguardo rivolto verso il basso in un atteggiamento di rassegnata sofferenza. L’anatomia, resa con grande attenzione naturalistica ma senza eccesso di enfasi, riflette l’equilibrio tra compostezza classica e intensità emotiva che caratterizza la pittura barocca fiamminga di matrice rubensiana.
La luce radente, proveniente da sinistra, modella le superfici del corpo con raffinata sensibilità chiaroscurale, facendo emergere la morbidezza dei volumi contro il fondo scuro e indefinito. Tale contrasto tra la figura luminosa e l’ambiente immerso nell’ombra contribuisce a isolare Cristo in uno spazio quasi sacrale, amplificando il pathos della scena.
Nel contesto culturale dei Paesi Bassi cattolici del Seicento, la rappresentazione di Cristo alla colonna assume un valore spirituale profondo. L’immagine della flagellazione, episodio di sofferenza e redenzione, era destinata a favorire la meditazione sulla Passione di Cristo secondo la spiritualità controriformata. Il formato ridotto e la cornice dorata coeva suggeriscono che il dipinto fosse concepito per un oratorio domestico o per un ambiente monastico, dove il fedele poteva contemplare la scena come strumento di preghiera personale.
Il linguaggio figurativo, sebbene derivato da un modello colto, è volutamente semplificato: l’artista rinuncia a complesse architetture o comparse per concentrare l’attenzione sulla figura di Cristo, solitaria e illuminata, simbolo della redenzione universale. Dal punto di vista stilistico, l’opera mostra affinità con la cerchia di Diepenbeeck, in particolare con quei pittori fiamminghi che, a metà del Seicento, combinarono l’eredità di Rubens con la sensibilità più composta di Van Dyck. L’attenuazione dei contrasti e l’introspezione psicologica di Cristo avvicinano il dipinto a un gusto devozionale più raccolto, affine a quello promosso dalle confraternite cattoliche riformate nelle Fiandre dopo il Concilio di Trento.
Nel complesso, il Cristo alla colonna qui esaminato si presenta come una raffinata interpretazione fiamminga del soggetto della Passione, nella quale la tensione drammatica è temperata da una profonda spiritualità interiore. La derivazione da un modello di Abraham van Diepenbeeck non riduce la qualità dell’opera, ma ne conferma l’appartenenza a un contesto artistico di alto livello, nel quale la copia o la variazione sul tema costituivano un esercizio di devozione e di virtuosismo tecnico.
Un confronto utile può essere stabilito con il Cristo alla colonna di Abraham van Diepenbeeck conservato al Museum Plantin-Moretus di Anversa, nonché con le versioni grafiche diffuse da Schelte à Bolswert e Boetius à Bolswert, incisori attivi nello stesso ambiente. Analoghe soluzioni compositive e luministiche si ritrovano anche nelle opere di Erasmus Quellinus, che collaborò con Diepenbeeck in più occasioni, e in alcune tavole di Cornelis Schut oggi conservate a Bruxelles e Vienna.
La qualità pittorica del presente esemplare, unita alla sua fedeltà al modello, suggerisce una realizzazione da parte di un artista della cerchia diretta di Diepenbeeck, probabilmente attivo ad Anversa nella seconda metà del XVII secolo.



































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